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La Casa Sulla Chiusa
Andrea Calo'







SAGGISTICA - NARRATIVA






LA CASA SULLA CHIUSA



Prima Edizione – Settembre 2012









© Copyright 2012 – Andrea Calò (@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it)

ISBN: 9788873042860














Andrea CalГѓВІ

LA CASA SULLA CHIUSA



Û©



Immagini di vita interiore







Edizioni TEKTIME


Alla mia sorellina Elena,

che per l’assurda volontà della Vita

non ha ricevuto dalle mie mani una copia

di questo libro per poterlo leggere,

ma che abita cosГѓВ¬ tanto nel mio cuore

da essere arrivata al punto di

poterlo scrivere.



[Elena Calò, 1 Maggio 1985 – 25 Settembre 2011]




Indice




SAGGISTICA - NARRATIVA (#uf45898be-77a9-5b28-b8b9-1252944a6082)

RINGRAZIAMENTI (#ufb2fce68-0727-5fe1-81f7-5118bb794b6c)

CAPITOLO 1 (#uecefa151-db1f-5654-a1a2-7dc83d7e8f73)

CAPITOLO 2 (#u08cd4868-af43-553a-ad99-04e763d1699d)

CAPITOLO 3 (#u988da303-354a-581e-b7ad-d1275ae5a69e)

CAPITOLO 4 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 5 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 6 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 7 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 8 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 9 (#litres_trial_promo)

CAPITOLO 10 (#litres_trial_promo)

EPILOGO (#litres_trial_promo)

TEKTIME (#litres_trial_promo)











RINGRAZIAMENTI


Scrivere un libro è come partire per un viaggio. Si fanno le valige, si parte da un punto preciso e si procede cercando di raggiungere il punto d’arrivo, la meta desiderata. Ma come a volte accade durante un viaggio, le insidie, gli errori, le paure e gli imprevisti sono lì pronti a sorprenderci, a frenarci, a volte al punto di farci desistere dal proseguire. Con l’aiuto delle persone che ci stanno accanto o a quelle incontrate lungo la strada, si riesce tuttavia a venirne fuori, a volte con facilità, altre volte con estrema pena; ma non ci si siede mai sull’errore, per non perdere l’investimento fatto. Durante questo viaggio ho avuto diverse persone al mio fianco, tutte mi hanno spronato e incoraggiato a continuare il cammino, a realizzare quel sogno che da tanti anni tenevo chiuso in un cassetto, permettendomi di aprirmi completamente ad esso, al mio progetto.

Grazie a mia moglie Sonia che piГѓВ№ di tutti ha creduto in me, da sempre, per la paziente lettura delle bozze avvenuta sin dalle prime fasi di preparazione di questo testo. Se non fosse stato per lei, oggi questo libro non esisterebbe.

Grazie a mio cognato Enzo, per avermi accompagnato in piacevoli discussioni sugli argomenti trattati nel libro e per avermi donato una parte di un suo elaborato perchГѓВ© potesse entrare a far parte di questa trattazione: con la sua chiarezza di pensiero mi ha spesso guidato aiutandomi a sbrogliare la matassa.

Grazie ai miei genitori, che mi hanno donato la vita, mi hanno cresciuto e istruito, permettendo che tutto questo si trasformasse in realtГѓВ .

E infine, ma non da ultimo, grazie a te Elena, per aver istruito il mio cuore e guidato la mia mente durante tutto questo percorso: qui dentro c’è davvero una grossa parte di te.




CAPITOLO 1


Ogni spirito libero ha in sГѓВ© sogni e follie.

[Anonimo]



Mi sono sempre chiesto quanti fili d’erba si potrebbero contare in un metro quadrato di terra. Una domanda semplice ma dalla risposta non banale. Troppe variabili da considerare: di quale campo è parte il pezzetto di terra, quale erba ci cresce, la varietà delle specie presenti, la tipologia della terra e così via. Sono solo alcune delle tante domande possibili. Pertanto, ho sempre schivato qualsiasi tentativo di approfondimento sull’argomento, convincendomi del fatto che, alla fine, non fosse poi così importante venirne a capo. Non potendo classificare in alcun modo la mia vita, ho archiviato il tutto sotto la voce “Conoscenze Sterili”. Bello sarebbe poter sapere tutto di tutto! Ma sarebbe anche pericoloso e, per quanto mi riguarda, mi troverei in balia completa dell’incertezza in ogni situazione della mia vita. Con troppe varianti a mia disposizione, ogni mia eventuale scelta troverebbe un suo opposto plausibile e valutabile, rallentando il mio processo decisionale e lasciandomi alla fine comunque nel dubbio di aver fatto la scelta giusta. Si spegnerebbe l’istinto a favore della ragione, non sempre riconosciuta come lo strumento più adatto al superamento di tutte le situazioni della vita e capace di condurci alle scelte corrette. Il significato di ciò che è giusto, poi, è del tutto relativo e legato alle persone, alle esperienze di queste, ai trascorsi storici. Ed è purtroppo forzato dalle mode dettate dalla comunità, dal sociale e dalle Religioni, senza distinzione alcuna. Si formano persone che si adattano a un “sistema”, quando invece dovrebbe essere l’esatto contrario. Vivrei la mia vita da piccolo uomo posto al centro di un recinto, e ad esso legato con tanti elastici. Potrei muovermi all’interno dello spazio a me assegnato ma non potrei mai andare oltre, trascinato costantemente verso il centro ad ogni mio tentativo di guardare o provare un’esperienza “oltre” il confine. E allora scelgo di dedicare i miei neuroni alle cose davvero importanti della vita. Quali sono le cose davvero importanti? Ecco un altro concetto totalmente relativo, legato com’è alle priorità personali, agli stimoli, alle sensazioni, alle emozioni di ciascuno di noi. Il cervello è facilmente intossicabile. Quando raggiunge il suo limite, è d’obbligo per noi fermarsi e guardarsi dentro, riscoprirsi e interrogarsi sul nostro presente senza curarsi troppo del passato che ci ha condotto a quel punto, per disegnare con serenità il nostro prossimo futuro. Cambiare rotta, se necessario, e darsi una bella ripulita. Non serve spingersi troppo in avanti con i pensieri e con i progetti, poiché troppi sono gli eventi che sfuggono al nostro controllo, che si prendono gioco di noi e che non sono minimamente predicibili nel momento in cui ci si guarda e ci si parla. Fanno parte della sfera dell’ignoto. Serve cambiare! Non mi riferisco solo a un superficiale ritocco cosmetico, parlo proprio di un’azione profonda, radicale e immediata, capace di scavare nelle viscere più profonde del nostro essere umano, là dove abita la parte più vera di noi, dove l’umano incontra il Divino in tutte le sue forme ed etichettature. Cancellare tutto e ricominciare da zero, è questa la sfida. Ma è tanto semplice quanto indovinare il numero esatto di fili d’erba contenuti in un metro quadrato di terra in un campo.

I cieli di Borgogna hanno una luce particolare e il loro colore avvolge e cattura, anche quando il tempo è brutto. Se ti fermi e ti sdrai a terra ad ammirarli volgendo lo sguardo verso l’alto, questi cieli ti cadono addosso e ti avvolgono, facendoti levitare. Non ne percepisci il limite, puoi perderti totalmente e lasciarti andare ai pensieri più disparati. E proprio là dove il cielo cede spazio alla vallata, si dispiega un mosaico di appezzamenti terrieri multicolore, che vanno dal giallo paglierino del grano maturo al verde intenso delle foglie alte dei vitigni. Qua e là s’innestano le macchie scure degli alberi ad alto fusto, ulteriormente rimarcati dalle ombre che essi stessi producono con il loro folto fogliame. Tutto questo è disegnato su un terreno morbido e ondeggiante alla vista, a tratti piatto e in altri gentilmente posato su graziose alture in cima alle quali spunta un immancabile castello. Ai piedi delle alture i piccoli paesini medioevali con le loro chiese, il cimitero annesso e i canali d’irrigazione completano il meraviglioso quadro bucolico. E’ l’immagine di un tempo che fa ormai parte di un passato lontano, tanto lontano da non poter essere compreso completamente e pienamente il più delle volte. Le strade strette e sterrate immerse nella campagna tracciano percorsi simili a disegni realizzati a mano libera. Formano una trama perfetta, capace di collegare ogni villaggio agli altri, come un’enorme ragnatela. Le case rurali tipicamente realizzate in pietra viva, come nodi di questa tela, segnano i punti di riferimento per i viandanti incuriositi dalla semplicità di una realtà di vita ancora presente in queste silenti campagne. Enormi nella loro maestosità, con la bellezza tipica delle costruzioni francesi del XX° Secolo, per la pietra che le compone, per i colori sempre vividi, per le ampie ante oscuranti e per le finestre in legno e ferro battuto, regolarmente rinfrescate con sorde vernici a smalto in tinte pastello. Molte di queste costruzioni ospitano rigogliose specie di edera, arrampicate fino alla sommità dei tipici tetti a punta sui quali spuntano regali lucernai. Immagino il panorama che si può osservare da lassù, come ultima immagine alla sera prima di addormentarsi o come primo dolce risveglio il mattino seguente. I rami capaci di seguire il profilo dei muri sfiorano a volte le finestre, si attorcigliano stretti intorno ai numerosi comignoli nella stagione calda per poi abbandonarli durante l’inverno, quando si accendono i camini. Dove l’edera non copre i muri, fresche macchie di muschio compatto completano la tinteggiatura naturale delle facciate esposte a nord, come fossero pezze di stoffa cruda cucite su un vecchio vestito sgualcito. In molte altre, una variopinta fioritura di rose, ciclamini, glicini e gelsomini si erge fiera da un letto composto di erba, papaveri rossi e folti ciuffi di lavanda. Le erbe spontanee, comunque curate e profumate, completano l’immagine di giardini semplici ma al contempo rilassanti e freschi. Cavalli e buoi sono lasciati liberi nei campi, restano ben lontani da pecore e capre che preferiscono invece raccogliersi in gruppo e trascorrere il tempo restando immobili sul posto, mangiando un ciuffo di erba fresca ogni tanto. Se ci si sofferma a guardarli attentamente, rispondono con sguardo lento e assonnato, gli occhi semichiusi e i movimenti minimi, annoiati, totalmente noncuranti dell’estranea presenza, senza avviso di alcun rischio o pericolo imminente. Di certo, la loro fine non è diversa da quella di altri tenuti chiusi in capanni e stretti recinti, ma indubbiamente la qualità della loro esistenza non può essere minimamente paragonata a quella dei loro simili reclusi. Per questo motivo, a detta di molti, la loro carne è più buona. Il tempo sembra rallentare così come i ritmi della vita e le emozioni. Tutto si distende, tutto si apre. La consapevolezza dei propri problemi si dissolve e ci si focalizza su ciò che è vacuo, quasi irreale in un mondo materiale. Mi fermo a guardare un campo spingendo l’occhio ai limiti del visibile, vedo la linea dell’orizzonte. Non riesco con i sensi ad andare oltre perché l’occhio non me lo consente, ma la mia mente supera il limite dipingendo di fronte a me l’impalpabile immagine della continuazione di questo paesaggio, in un istante. Mi sento tanto piccolo in mezzo a tanta vastità, ma oltremodo percepisco un senso di sicurezza e di appagamento interiore, sentimento che assai raramente ho provato prima nella mia vita.

Ho scelto la Borgogna per trascorrere qualche giorno di vacanza, per rilassarmi con mia moglie e dimenticare per un po’ il frastuono della vita di città. E’ tutto così diverso qui. In città ogni tanto mi assale il desiderio del distacco. I luoghi del quotidiano m’infastidiscono come un prurito dei più molesti, le persone non mi appagano più di tanto e mi assale un desiderio d’isolamento: quasi che l’unica riconciliazione possibile possa passare solo attraverso l’assenza dei rumori di città e dei suoi abitanti. Provo spesso, in questi momenti, a concentrarmi sul dettaglio piccolissimo di un paesaggio: l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa che si affaccia su di un prato, una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna. Sento che lì il rumore si trasforma in suono, si combina e s’integra con il concerto universale, lo stesso in cui una voce umana può tornare a somigliare a un canto, senza spingere violentemente per il primato della onnipresenza. Quando cammino per le strade, nelle mie giornate dell’insofferenza, l’umanità mi appare una presenza proterva, per numero di esemplari e per agitazione. Colgo il loro affanno per arrivare non si sa dove come un segnale di disperazione, di quella cattiva, pronta a farsi largo anche con le unghie o con le armi. E allora non posso fare a meno di sentirmi nato e destinato altrove, che sia l’inizio di una salita in montagna, la finestra di una casa e il suo prato o una panchina sistemata accanto ad una fontana di campagna, poco importa: in ogni caso si tratta di un “altrove” dove la voce può tornare a risuonare come un canto, il mio.

La nostra meta era una piccola casa sul canale di Borgogna, circa alla metà della sua totale lunghezza, proprietà del custode di una delle tante chiuse ivi presenti, sita nel villaggio di Gissey sur Ouche e prospiciente il canale stesso. Cercavamo un po’ di pace, di rilassamento, d’isolamento dal caotico mondo di città, alla ricerca di noi stessi. Il paesaggio innanzi a noi si dispiegava in un concerto ci colori, di riflessi di sole disegnati nelle pozze d’acqua, ci catturava completamente. Sarebbe stato difficile ritornare alla vita di città, già ce ne rendevamo conto, ancor prima di aver assaggiato il posto. Il meglio però doveva ancora arrivare, presentandosi prepotentemente davanti ai nostri occhi, invadendoci il cuore e catturando per sempre la nostra attenzione. Gissey è un villaggio formato da un pugno di case per lo più costruite in pietra, in piena eco medioevale. Il municipio, una scuola, una chiesa e il suo cimitero adiacente erano gli unici edifici pubblici visibili dalla strada centrale. Un solo ristorante, piuttosto piccolo, offriva menù turistici a prezzo fisso solo in alcuni giorni della settimana, inclusi il sabato e la domenica, raramente la sera. Nessun negozio, nemmeno di generi alimentari. Anche qui si notavano gli animali in libertà nei campi, gli uccelli si libravano in cielo disegnando cerchi e archi ad ampio raggio, planando e risalendo come ballerini guidati dalle note perfette di un’aria classica.

Arrivati nei pressi del villaggio, voltammo su una stretta strada sterrata, cosparsa di sassi e ghiaia, così stretta che difficilmente due auto sarebbero potute transitare contemporaneamente in senso opposto. Costellata di buche larghe e profonde, qua e là riempite dall’acqua piovana non assorbita dal terreno, la stradina fiancheggiava il canale che si distendeva alla nostra sinistra e sul quale scorgevamo qualche piccola chiatta che procedeva in linea retta. Sulle chiatte la gente rideva allegramente, si guardava attorno disegnando sui volti sguardi carichi di folklore, i visi dalla pelle lucida e ben tesa, di un colore bianco latte macchiato di un rosa confetto e con le gote tendenti al rosso acceso. Gli uomini scattavano fotografie mentre spizzicavano stuzzichini e sorseggiavano avidamente del vino da lunghi calici in vetro. Forse erano già sopraffatti dalla potenza dell’alcol. Donne di mezza età sedevano rilassate, le gambe scomposte sulle panche, di legno scuro e metallo, che arredavano il ponte della barca. Oppure, ove presenti, su sedie sdraio con seduta in telo grezzo, color beige. I bambini appoggiati alle loro madri gustavano i loro gelati, il viso parzialmente nascosto dai loro variopinti berretti per proteggersi dal sole e nascondere l’imbarazzo agli sguardi dei curiosi compagni di viaggio. Davano l’impressione di assaporare la più assoluta libertà, o qualche cosa di molto simile, la spensieratezza, quasi fossero parte integrante dell’ambiente, in comunione con esso. I problemi della vita di tutti i giorni sembravano non sfiorarli nemmeno, come se in realtà non ci fossero proprio problemi da affrontare, come se ne fossero totalmente esenti. Oltre che in lingua francese si sentiva parlare anche in tedesco, in inglese e in spagnolo. Nessun italiano era presente, o quantomeno nessuno che stesse parlando in quel momento. Tuttavia, nessuno dei presenti mostrava lineamenti del viso tipicamente italiani. Passavano davvero molto vicino a noi e si potevano vedere bene, fino quasi a rilevarne i difetti della pelle. Noi osservavamo la barca galleggiare mentre trasportava l’allegra comitiva. Non emetteva rumori assordanti per via dei motori in azione. Dava l’impressione di scivolare sull’acqua, come sospinta dalla sola forza dell’aria. Dai finestrini della nostra auto, che avevamo opportunamente spento per ammirare e immortalare la scena, entravano il suono delle risate delle persone, i loro discorsi e la sinfonia del canto degli uccellini che popolavano lo spazio aperto alla destra della carreggiata. Su questo lato, un’immensa distesa verde ricopriva tutto il campo a noi visibile. Era come incorniciato da colline di un verde più scuro e intenso che sembravano essere state messe lì proprio per non svelare subito le bellezze che si dispiegavano dietro di esse.

«E’ tutto così incredibile qui!», disse Sonia con una voce carica di gioia e palpabile eccitazione, con gli occhi che brillavano di quella luce che non percepivo da qualche tempo con eguale intensità «Sembra un altro mondo! Sembra quasi che imboccando quella strada si sia oltrepassata la linea di confine che divide ciò che è reale da ciò che invece è mero frutto dei sogni. E’ indescrivibile, sono felice!», concluse.

«E’ tutto così vero ma è anche così incredibile al tempo stesso! I colori, i suoni, i profumi e le immagini. Tutto sembra avere un suo spazio, una posizione tanto precisa che, se modificata da un profano, farebbe percepire l’oggetto isolato come “fuori posto”. Tutto è parte del quadro che in questo momento stiamo osservando e sembra portare la firma del suo autore, di un’entità superiore ed esperta, non si percepisce modo alcuno per migliorare quanto agli occhi appare già perfetto fin dall’inizio. Sono felice anch’io!».

Girai la chiave per riaccendere l’auto e con un sorriso la invitai a proseguire verso la nostra meta ormai prossima, la casa sulla chiusa 34s. Mentre avanzavamo, gli alberi dietro di noi chiudevano il tunnel sulla strada come fossero i tendoni di un sipario teatrale alla conclusione dell’opera.




CAPITOLO 2


La gente dice: ГўВЂВњГѓВ€ mattoГўВЂВќ.

Oppure: “Vive in un mondo di fantasia”.

O ancora: “Come può confidare in cose prive di logica?”.

Ma il guerriero continua ad ascoltare il vento

e a parlare con le stelle.

[Paulo Coelho - Manuale del guerriero della luce]



La casa era piccola, con i muri costruiti in pietra viva. Il tetto mostrava una notevole pendenza su entrambe le facciate della casa. Era necessaria per favorire lo scarico delle nevi durante il periodo invernale, evitando la formazione di pesanti lastre di ghiaccio pericolose per la struttura di travi di legno visibili anche all’interno delle stanze. I proprietari di casa e custodi della chiusa si chiamavano Urs e Doris, una coppia molto affiatata. Avevano diviso la casa in due parti, una più ampia a loro riservata, l’altra ceduta in affitto ai turisti come alloggio per le vacanze. Nella sua semplicità la casa aveva tutto quanto potesse servire: un salotto con angolo cottura, un cucinino ben attrezzato e magnificamente fornito delle necessarie stoviglie, pentolame e posate in quantità, un comodo divano, un bagno privato molto raccolto ma con ampia doccia. La zona notte soppalcata sfruttava la parte più alta della struttura. Vi si accedeva tramite una robusta scala interna. Era disponibile ogni sorta di elettrodomestico, utile o meno, c’erano una radio, la televisione satellitare, persino la connessione ad Internet senza fili. Tutto questo sembrava quasi fuori luogo in una contestualizzazione all’apparenza tanto semplice, rurale, naturale e minimalista. Non potevo non apprezzare tutte queste comodità ormai entrate prepotentemente a far parte della mia vita di uomo di città, feci comunque promessa a me stesso di limitarne l’uso al minimo indispensabile. Eravamo alla ricerca di tranquillità assoluta, del distacco dal superfluo, dell’immersione nella natura. Non volevamo di certo consumare del tempo prezioso ripetendo le azioni della caotica vita di tutti i giorni. All’esterno la casa non era circondata da fiori o piante tipiche dei giardini preziosi. Era al contrario tinteggiata da chiazze di colore delicato, donato da fiori e arbusti spontanei, dai papaveri rossi e altri eleganti fiori di un colore arancio intenso, dalle campanule bianche e viola arrampicate sui muri o cosparse sul terreno, così belle e fitte che ci si obbligava a porre attenzione per non calpestarle mentre si camminava. C’erano erbe e arbusti che io avrei sicuramente rimosso se nati nel giardino della mia casa in città, perché non adatti o non belli se guardati con uno sguardo superficiale. Questi fiori dalla forma unica mostravano venature e sfumature di colore sui soffici petali, vellutati al tatto. E il loro dinamismo, il modo in cui oscillavano consegnandosi all’aria per via del loro lungo stelo, li faceva sembrare ballerini istruiti da un grande maestro. Tutto questo ci affascinava, catturandoci in una sorta d’incantesimo, d’ipnosi. Perché ciò avveniva solo lì e in quel momento? Ne ho viste tante di campanule e di papaveri fioriti nella mia vita, perché non ho mai fatto caso a quanto fossero belli, delicati ed eleganti? Realizzai la mia profonda superficialità e in parte mi rattristai. Su un angolo della casa si sviluppava invece una stupenda rosa dal colore rosso intenso, aveva petali soffici come il velluto più pregiato e rilasciava un profumo che avvolgeva completamente, annientando i sensi. Avevamo a disposizione due biciclette, fondamentali per muoversi nei dintorni senza dover usare l’automobile.

Dopo aver condiviso con noi alcune informazioni sulla zona e i relativi luoghi d’interesse, Urs e Doris ci lasciarono sistemare, salutandoci con l’invito per un aperitivo di benvenuto da consumarsi nell’imminente pomeriggio. Il silenzio intorno a noi era palpabile, un silenzio quasi fastidioso, direttamente percepito dall’orecchio e al quale non eravamo abituati. Guardai mia moglie e la invitai ad ascoltare. Si sentiva l’immancabile cinguettio degli uccelli sempre numerosi e di diverse specie, lo scroscio delicato dell’acqua nella chiusa alle nostre spalle, mantenuto per tenere sotto controllo il livello del canale, il saluto ricambiato dei proprietari ai passanti con il sottofondo delle foglie degli alberi mosse dall’aria.

Sul canale si trovano molte chiuse, una per ogni salto di livello dell’acqua, generalmente di qualche metro. Per ogni chiusa esiste una casa, abitata da un custode che ha il compito di aprire e chiudere la chiusa al passaggio di ogni chiatta sul canale. Le operazioni di apertura e chiusura sono eseguite a tutt’oggi in modo manuale, con gli stessi movimenti sopravvissuti al trascorrere del tempo per arrivare fino ai giorni nostri. Una chiusa è formata da una vasca a tenuta stagna, lunga ma molto stretta rispetto alla larghezza del canale stesso, realizzata come scavo nel terreno con blocchi in pietra posti a rinforzo degli argini terrosi, altrimenti soggetti a erosione al contatto con l’acqua. Il livello dell’acqua all’interno della vasca è aumentato o diminuito per consentire alle chiatte di transitarvi e per essere alzate o abbassate, portandole al livello desiderato uguale a quello della parte di canale in risalita o discesa da raggiungere. I passeggeri sulle chiatte sembrano sempre molto attenti e osservatori durante l’esecuzione di queste manovre, quasi fossero loro stessi a doverle eseguirle di persona. Nonostante i tentativi del governo francese atti ad automatizzare questi sistemi, il canale e le persone che su di esso lavorano hanno sempre cercato, con successo, di mantenere questa manualità che è tutt’oggi molto apprezzata e ammirata dai turisti.

Urs e Doris ci chiamarono per l’aperitivo, invitandoci a unirci a loro al tavolo affacciato sulla chiusa. Da quel punto si godeva una vista stupenda, lo sguardo poteva liberamente distendersi sul canale, ubriacando con i suoi vivaci colori, sui riflessi carichi di dettagli degli alberi che dipingevano lo specchio d’acqua, sui fiori e sugli arbusti che popolavano le sponde. Famigliole di papere nuotavano in fila, a volte zigzagando, sul pelo libero dell’acqua. Non era raro vedere queste famigliole dirigersi verso i bordi del canale al transito delle chiatte, per poi attenderne il passaggio e riposizionarsi in coda a queste e continuare il percorso. Il canale ospita nel suo ventre molti grossi pesci, difficilmente osservabili dall’esterno per via della torbidezza dell’acqua colore verde militare. E’ un richiamo irrinunciabile per gruppi di pescatori che regolarmente si appostano sui sentieri lungo i bordi, esperti e ben attrezzati gli uni, semplici principianti muniti solo di canna e di retino gli altri, tutti con il comune intento di portare a casa un grosso pesce e gustarselo per cena da soli o con la famiglia, accompagnato da qualche saporita salsa francese, del buon vino e una baguette. Se ne vedevano davvero tanti, schierati in fila come soldati, alcuni più concentrati altri più rilassati, quasi assonnati. Lasciavano le loro auto parcheggiate non molto lontano dalle loro postazioni di pesca, ma con tutti i finestrini rigorosamente aperti. Di fronte alla chiusa alcune collinette segnavano un confine non invalicabile, essendo di modesta altezza. Non si vedevano case o costruzioni di alcun tipo, forma o diversa destinazione d’uso in tutta l’area che ci circondava. Qualche passo oltre la sponda del canale, opposta a quella sulla quale ci trovavamo, un torrente piuttosto agitato saturava l’aria con il suono prodotto della sua acqua scrosciante, leggermente deviata da grossi massi che vi si ritrovavano all’interno, sparsi qua e là. Le foglie che si distaccavano dai rami degli alberi posti sul bordo cadevano nell’acqua dopo aver ondeggiato per un po’, per esser poi condotte dalla corrente lungo la sua pendenza. I sassi circuiti con movimenti eleganti, curvi e sinuosi, rimanevano lì sorpresi, silenti e incapaci di arrestarne o anche solo rallentarne il viaggio. Che danza!

Erano le prime ore del pomeriggio, il sole alto nel cielo riscaldava l’aria ma non si percepiva l’afa. L’umidità nell’aria era minima, nonostante la vicinanza al corso d’acqua. Urs sfoggiava il suo solito bel sorriso. Invitandoci ad accomodarci, si scusò dicendo che si sarebbe assentato alcuni minuti per preparare l’aperitivo. Dall’interno della casa, attraverso la piccola finestra lasciata parzialmente aperta, proveniva il suono sordo del coltello che Doris armeggiava mentre tagliava cubetti di formaggio e pane biscottato intriso di olio e spezie. Il coltello sembrava urtare un piano di lavoro realizzato in pietra viva, ad intervalli tanto regolari da essere confondibili con quelli prodotti da una macchina piuttosto che da un braccio umano. Mia moglie ed io ci guardavamo restando in silenzio, provando un senso di profondo assopimento, di rilassamento. Solo due ore di permanenza sul posto ci avevano già fatto perdere completamente il legame con la realtà di vita cittadina che sembrava quasi non appartenerci più.

«Ma può davvero esistere tutto questo? Sto forse vivendo un sogno?», esclamò Sonia a bassa voce, forse per non farsi sentire dai proprietari che, comunque, non avrebbero compreso le nostre parole.

«E’ un’incredibile realtà che credevo ormai perduta nei tempi e dispiega proprio qui davanti ai nostri occhi con ricchezza di particolari. Non vi è nulla da aggiungere. Godiamoci tutto questo, amore. Tutto e solo per noi», risposi stringendo le sue mani tra le mie.

Urs ricomparve tenendo in mano due bottiglie, una di vino bianco e l’altra, già aperta in precedenza, contenente un vino piuttosto denso, di un colore rosso molto intenso. Ci spiegò che si trattava di un liquore di more prodotto nella sua tenuta, dalla gradazione alcolica molto forte. Era solitamente utilizzato per “tagliare” altri vini o per preparare dei cocktail, aperitivi o dolci. Raramente veniva bevuto così com’era, anche per via del sapore leggermente acre. Versato circa un centimetro di questo liquore nei bicchieri, riempì il resto del calice con il vino bianco, formando un miscuglio dal colore molto simile al vino rosato. Il sapore pungente ma molto gradevole conservava quasi inalterata la gradazione alcolica del liquore, solo minimamente ammorbidita da quella notevolmente più contenuta nel vino bianco. Doris uscì dalla casa portando in trionfo un vassoio colmo degli stuzzichini di formaggio e pane preparati qualche minuto prima. Dopo gli auguri di rito, cominciammo ad assaporare il tutto, lasciandoci completamente trasportare dai sapori, dagli odori, dal canto delicato e discreto degli uccelli, dal fruscio prodotto dallo strofinio delle foglie degli alberi sospinte dai soffi di un venticello che cominciava a farsi apprezzare, temperando l’aria. Qualche piccola nuvola bianca macchiava il cielo fino a quel momento azzurro, smorzandone una monocromaticità totalmente privata di confini. Discutemmo di molte cose, della nostra vita di città, del nostro lavoro. Urs e Doris ci raccontarono parte del loro passato, illustrandoci i percorsi e le scelte che li avevano condotti lì in quel paradiso. I loro stati d’animo ci arrivavano direttamente al cuore, accompagnati a destinazione dalle loro parole. Amavano quel posto, si sentivano parte di esso. E la luce che brillava nei loro occhi, i loro sorrisi e l’allegria che mostravano in ogni situazione ce lo confermavano ad ogni istante, anche nei giorni che seguirono. Vivevano una vita vera, una vita piena nella sua semplicità. Mai scorderò un’immagine che mi si è incisa a fuoco nella mente mentre guardavo Urs. Teneva il calice mezzo pieno tra le mani, con lo stelo poggiato sul tavolo. Il suo sguardo, perso verso l’orizzonte, regalava un leggero sorriso prodotto dai pensieri che in quel momento gli passavano per la mente. Pensieri sicuramente di delicata importanza, sgomberi da problemi di ogni sorta. Nel bicchiere il sole disegnava macchie di luci e ombre animate dall’ondeggiare del vino sospinto dai movimenti della mano. Urs portava il bicchiere alla bocca senza nemmeno guardarlo, totalmente assorto nei suoi disegni, quasi estraniato. All’opposto Doris parlava senza sosta, solo minimamente interrotta da una sigaretta che aspirava con regolarità.

Alla fine li salutammo ringraziandoli, per poi ritirarci in casa a riposare un po’ in attesa dell’arrivo della frescura serale. Dopo una sola giornata avevamo già raccolto così tante emozioni da riviverle anche di notte nei nostri sogni.










CAPITOLO 3


L’amicizia è uno dei doni del cielo all’umanità “Le montagne non si incontrano, ma gli uomini sì”.[Samburu, Kenya]



Tra amici cadono le barriere che di solito chiudono gli individui nel loro piccolo recinto. Non ci sono segreti tra amici: “Se ci si ama, non si nasconde la nudità”.[Mongo, RD. Congo]



L’oscurità totale della notte lasciava spazio alle tenui luci di una timida alba. Le prime chiazze di una luce priva di sorgente, formate solo dal chiarore che risaliva le colline, a fatica si facevano spazio passando tra le folte chiome degli alberi. Come un lenzuolo, un sottile e uniforme strato di bassa nebbia ricopriva il campo di grano lievemente inumidito dalla rugiada del mattino. Si era creata un’atmosfera tipica dei paesaggi nord europei, quelli che si vedono spesso sulle cartoline e sui libri di fotografia. La chiusa era deserta e il flusso d’acqua attraversante le bocche di scarico era ridotto al minimo. Un leggero venticello manteneva l’aria fresca in quella mattina, sollevando pian piano la nebbia fino a farla scomparire. Le tenere spighe di grano dorato, così riscoperte, erano illuminate dai raggi del sole ormai alto e libero in cielo. Erano solo le sette del mattino ma si percepiva il ritardo che la luce del sole aveva rispetto a quello che vedevo nelle mie mattine milanesi. Un coniglietto selvatico saltellava in modo irregolare sul sentiero, di fronte alla porta di casa. Probabilmente, pensai, era alla ricerca di cibo. Dal frigorifero presi una piccola carota e la posai fuori dalla porta, a terra sullo spiazzo prospiciente la stradina. Lo feci con cautela, perché non si spaventasse e scappasse via. Mi fissava con i suoi piccoli occhi, neri e tondi, il corpo impietrito, pronto a scattare via in fuga se necessario. La mia presenza lo inquietava, era evidente. Tuttavia non se ne andava. Posata la carota, lentamente, indietreggiai senza distogliere il mio sguardo dal suo. Quando fui sufficientemente lontano, invece di prendere la carota scappò via in gran volata. Lì per lì pensai fosse stato disturbato da qualcosa di diverso, forse un rumore che io non avevo percepito o forse un animale che si muoveva nel campo. Rimasi solo a guardare la carota posata a terra, quindi mi girai e tornai in casa, raccontando l’accaduto a Sonia. Incredula si affacciò alla finestra, e vista la carota abbandonata scoppiò in una sonora risata.

Facemmo colazione in tutta tranquillità, riservandoci tutto il tempo necessario, discutendo su quello che avremmo fatto durante la giornata: perlustrazione della zona in bicicletta, macchina fotografica alla mano, restando a pranzare fuori al sacco in mezzo a uno dei tanti campi variopinti oppure in qualche area di ristoro nei villaggi vicini. Avremmo eventualmente chiesto indicazioni ai pescatori lungo la via. Usciti sul sentiero, mentre chiudevo la porta di casa, notai che la carota era sparita. In un primo momento ne rimasi stizzito, ma subito dopo mi lasciai andare in un sorriso. Non potevo di certo aspettarmi dei ringraziamenti dal coniglietto per avergli donato una carota. Abituato alla sua libertà, è anche sicuramente poco avvezzo a qualsiasi forma di rapporto. A volte non ringraziano nemmeno gli uomini, come potevo pensare che un animale selvatico riuscisse a farlo? Eppure, pensai, è tornato e ha accettato con fiducia il mio dono. Ripensai ai suoi occhi e all’intensità di quell’immobile sguardo, capii che quello era il suo semplice ma sincero modo per dirmi grazie. Gli uomini, spesso, girano di spalle e se ne vanno.

Prese le nostre biciclette partimmo ad energiche pedalate, percorrendo i sentieri più o meno sassosi e tortuosi, fiancheggiando il torrente e riudendone il canto incessante, salutando ricambiati, a voce o con sorrisi, le persone che ci guardavano dai ponti delle chiatte che superavamo in velocità. I pescatori ci osservavano con sospetto, forse disturbati dal nostro chiassoso passaggio che, in qualche modo, annientava la loro soporifera attesa. Superavamo ponti secolari che mostravano la roccia viva scolpita dal tempo, con gli spigoli smussati dalle piogge e dai venti. Forte ma intangibile ci arrivava il profumo dei materiali provenienti dal passato. Era impossibile scorgere automobili o anche solo percepirne il rumore dei motori, tanto lontani eravamo dalle principali arterie stradali. Nel nostro tragitto abbiamo superato parecchie chiuse, tra loro tutte molto simili. Dopo aver percorso una ventina di chilometri, sentivamo la necessità di fare una piccola sosta. Decidemmo quindi di raggiungere la chiusa successiva per chiedere quanto distasse il primo paesino o villaggio nella direzione percorsa dal nostro sentiero. Arrivammo alla chiusa che distava altri cinque chilometri dal punto dove c’eravamo in precedenza fermati per recuperare il fiato. Come ci aspettavamo, c’era la casa del suo custode. Nelle sue dimensioni, nei colori e nella forma, era molto simile a quella in cui soggiornavamo noi. Tuttavia il giardino era molto più ampio e curato, ricco di roseti variopinti. Le piante, già abbondantemente fiorite, dipingevano macchie di colore che da terra si allungavano fino a due metri d’altezza. Sfumavano dal bianco candido al rosso fuoco, passando per due diverse tonalità di giallo, quasi arancio, e di rosa. Le mura della casa, così come i pergolati, erano interamente ricoperte di glicine. I suoi fiori a grappoli di un bel colore lilla intenso e nel pieno della fioritura, spuntavano da un letto di foglie verde pastello, donando alla casa un senso di assoluta freschezza. I davanzali delle piccole finestre erano adornati con vasi di gerani, anch’essi multicolore. I fiori, ancora parzialmente chiusi, attendevano il tempo giusto per mostrarsi in tutta la loro bellezza. Sul lato opposto della casa, proprio là dove terminava il roseto, si scorgeva un orto. Forse era solo la piccola parte di un terreno molto più grande, nascosto ai nostri occhi dalla casa. Un bambino faceva la spola tra l’interno e l’esterno della casa, portando a due mani un annaffiatoio con il quale bagnava i gerani. L’aria fresca intorno a noi era impregnata da profumi, un miscuglio di fragranze tra le quali si distinguevano con facilità la menta e la salvia.

Con minimo accenno della voce, per non disturbare eccessivamente, attirai l’attenzione del ragazzino che, sentendosi chiamare da un estraneo, rimase un poco attonito. Non sembrava tanto intenzionato a parlare con noi, tant’è che ci mandò un chiaro cenno di aspettare e corse in casa per poi uscirne accompagnato dalla madre. Attraversato l’uscio, totalmente incurante della nostra presenza, tornò ai suoi gerani mentre la madre si avvicinava a noi. Era una bella donna dai capelli neri, piuttosto alta e snella ma non magra. Tuttavia mentre si avvicinava a noi, cominciavano a intravedersi i lineamenti e i segni lasciati dal tempo sul suo viso. Non doveva essere tanto giovane ma di certo era ben curata nell’aspetto. Forse le fatiche fisiche avevano precocemente lasciato le loro firme indelebili sul suo corpo. Non potevo saperlo né tantomeno in quel momento m’interessava, quindi smisi di pensare e mi preparai al dialogo con lei mentre un timido sorriso compariva sul suo volto.

«Buongiorno! Cercate qualcuno?», esclamò, mantenendo sulle labbra quell’interrogativo, in attesa di una nostra risposta.

«Buongiorno a lei signora. La prego di scusarci se le abbiamo recato del disturbo. Saprebbe indicarci quanto dista da qui il prossimo villaggio e quale direzione dobbiamo prendere? Conviene proseguire lungo il sentiero oppure dobbiamo deviare? Vede, siamo alla ricerca di un posto per fermarci a riposare un po’, per mangiare e comprare qualche bibita fresca. Non ci dispiacerebbe poter fare anche una passeggiata se possibile, per vedere qualche cosa. Abbiamo attraversato un villaggio che dista ormai circa dieci chilometri, non vorremmo tornare subito indietro percorrendo tanta strada a vuoto», replicai rassicurandola.

«Si ce ne sono alcuni, certamente. Vedo però che siete in bicicletta e sembrate anche piuttosto stanchi. Raggiungere il prossimo villaggio potrebbe provarvi ulteriormente e arrivereste davvero sfiniti al villaggio. E poi, non dovreste anche tornare indietro? Da dove provenite?», chiese. Aveva tutte le ragioni del mondo.

«Soggiorniamo a Gissey, arriviamo dalla chiusa 34s signora», esclamai fiero, quasi mi sentissi un esperto padrone del posto in cui posavo i miei piedi in quel momento.

«Ah, capisco! E’ la casa di Urs e Doris. Brave persone davvero», replicò. «Secondo me ne avete già percorsi tanti di chilometri, vi consiglierei di non proseguire oltre, almeno per oggi. Comunque la decisione spetta a voi. Mi sembra di percepire il dolore che sentite nelle vostre gambe e sui vostri fondoschiena!», continuò, sempre guidata da una fonte di divertimento contagioso che portò subito anche noi due a ridere di gusto mentre confermavamo la sua assunzione producendo una comica smorfia di dolore sulle nostre facce.

«Sentite ragazzi, le bibite fresche le abbiamo anche noi, l’unica differenza è che non sono in vendita quindi dovreste accettare la nostra ospitalità», disse divertita, «Se vi fa piacere unirvi a noi, siete i benvenuti. Non mordiamo, potete stare tranquilli!», disse infine con viso rassicurante e sincero.

«Ci sembra brutto approfittare di tanta gentilezza, signora…»

«Giselle, mi chiamo Giselle!», m’interruppe tendendoci la mano per presentarsi e attendendo che noi facessimo altrettanto.

Ci presentammo e dopo aver ringraziato fino alla noia, la seguimmo. Ci fece accomodare a uno splendido tavolo in pietra costruito sotto un porticato che completava il lato sulla destra della casa fino a raggiunger quasi il recinto del giardino della proprietà. Anche da quel punto si potevano scorgere la chiusa e il torrente poco distante, immersi nel verde dei campi e degli alberi. Nessuna collinetta, tuttavia, limitava la vista fino alla linea dell’orizzonte, permettendo all’occhio di spaziare, oltre i confini. Solo un movimento a sbalzi irregolari privava il terreno di quella piatta monotonia delle distese pianeggianti. Spingendo l’occhio ad andare oltre la linea dell’orizzonte, si notavano coltivazioni. Erano visibili solo perché leggermente rialzate rispetto al suolo e mostravano delle tinte di verde più scuro. Si trattava di vitigni molto fertili, nei quali si produceva il buon vino di Borgogna.

«Attendetemi qui per qualche istante, vado a prendere Monsieur Jacques. E’ mio padre. Lui si definisce uno dei più grandi chiacchieroni di Francia o forse d’Europa. Io invece lo ritengo essere davvero un uomo molto saggio, imparerete a conoscerlo», disse divertita e con fierezza al tempo stesso.

Non ho mai saputo se in questo lei si sentisse simile al padre oppure no, la figlia “saggia” di un uomo saggio. Forse esprimeva una saggezza diversa da quella del padre. Il tempo mi avrebbe suggerito la risposta. Sonia ed io ci guardammo in viso, divertiti da tanta allegria ma anche sorpresi da quell’ospitalità così inaspettata. Tememmo vagamente l’imbarazzo di quella situazione, soprattutto nei confronti del saggio, o chiacchierone, Monsieur Jacques.

«Papà, oggi ci sono amici a tavola con noi!», avvisò Giselle subito dopo aver varcato l’uscio, in direzione di una stanza che non riuscivo a identificare.



Ho sempre ritenuto che amicizia e fiducia fossero tra loro strettamente legate, due doni che le persone ricevono e concedono solo con il passare del tempo. La semplice conoscenza non implica necessariamente l’amicizia e la fiducia. Non ci può essere istinto in un rapporto di amicizia perché non si può misurare la cosiddetta “sensazione di pelle”. L’amicizia deve essere provata, dimostrata e condivisa. Altrimenti si tratta solamente di un rapporto unilaterale. Mi riferisco a quella forma di amicizia che implica la complicità e che a volte crea anche attrito tra due persone, l’amicizia nella sua forma più vera. Associo poi la fiducia al carburante necessario per far sì che l’amicizia possa andare avanti, permettendole di nascere, di svilupparsi, di evolvere verso sentimenti ancora più importanti, più profondi. Senza questo carburante non si può procedere, tanto vale quindi scendere e continuare a piedi, ma da soli. Osservando il film dei miei anni ho visto e sentito storie di persone che hanno donato la vita per l’amicizia, amando l’amico ancor più di se stessi. Ho visto persone svuotarsi di tutto pur di condividere le cose con i propri amici e mi son chiesto se anch’io al posto loro fossi stato capace di fare altrettanto. Forse avrei perso la sfida con me stesso, non so, ma di certo non ho ancora avuto una vera occasione per mettermi alla prova. Ho anche sentito di storie tradite, forse perché quel sentimento di amicizia era vissuto in modo diverso dalle persone in gioco, forse a senso unico, o forse per qualcuno l’amicizia era molto più sinonimo di buona opportunità e, come tale, da sfruttare a piene mani. Tuttavia non mi meraviglia tutto ciò. La lotta per la sopravvivenza della specie è scritta nel DNA dell’animale, sia esso uomo o bestia. Si lotta per sopravvivere e per andare avanti, “morte tua è vita mia”. Poco importa, a volte, di chi ne paga le conseguenze. E’ un processo di selezione naturale, questo è stato nei millenni passati e questo non cesserà mai d’essere in quelli futuri. Ci nascondiamo dietro quest’alibi e non ci preoccupiamo più degli effetti che ne possono derivare. Ho sentito infine anche di storie di amicizia ricambiata, casi davvero rari e il più delle volte parte di favole; quando reali, esaltati e idealizzati al pari di racconti leggendari. Suscita meraviglia il fatto che, a fronte di una bella storia di amicizia, si tenda a romanzarci sopra, a farne dei film, a creare miti da esporre e utilizzare come riferimento, ogni volta che le cose non evolvono come ci si aspetta, dispiegandosi nella stesura di chilometriche poesie o prose poi destinate alla vendita. Miti, grandi esempi di vita da emulare, da seguire. Non dovrebbe essere questa la “normalità”? Se penso a una persona, la considero mia amica, intendo dire che questa persona è come me, al pari mio. Altrimenti utilizzo un altro termine per catalogarla, preferisco chiamarla “conoscente”. E la fiducia quindi, come si pone, dove entra in gioco, quale posto occupa? La fiducia che riponiamo in un amico vero e non solo supposto tale, può essere la stessa riposta in un semplice conoscente? A mio modo di vedere le cose e in seguito alle esperienze, la risposta non può essere altro che negativa.

L’amicizia e la complicità sono cose di vecchia data. Fin da quando l’uomo ha iniziato a camminare sulla Terra per vivere, o meglio per sopravvivere, ha avuto bisogno di un compagno al suo fianco. L’uomo preistorico per cacciare doveva essere sempre affiancato da un compagno o più simili per braccare e poi uccidere la sua preda. Aveva capito che da solo non avrebbe potuto abbattere la sua grossa preda, avrebbe al contrario rischiato di morire. Il legionario romano doveva affidarsi alle capacità dell’intero plotone per creare la “testuggine” e quindi difendersi dal nemico in battaglia. Persino in ambito letterario e artistico l’amicizia ha ispirato l’uomo nella creazione delle sue più grandi opere. L’uomo per sua natura non riesce a vivere da solo, ha bisogno del branco. Esistono alcune persone che preferiscono rimanere da sole, forse proprio per via della diffidenza che nutrono verso altri, oppure per necessità di realizzare un proprio isolamento alla ricerca spirituale di se stessi, senza esporsi ai condizionamenti esterni. Riporto qui un passo di Cicerone che, seppur datato, consegna ai nostri occhi un messaggio ancora molto moderno:



“L’amicizia non è altro che un’intesa sul Divino e sull’umano, congiunta a un profondo affetto. Eccetto la saggezza, forse è questo il dono più grande degli Dèi all’uomo. C’è chi preferisce la ricchezza, chi la salute, chi il potere, chi ancora le cariche pubbliche, molti anche il piacere.[…] C’è poi chi ripone il bene supremo nella virtù: cosa meravigliosa, non c’è dubbio, ma è proprio la virtù a generare e a preservare l’amicizia e senza virtù l’amicizia è assolutamente impossibile. […] L’amicizia non può esistere se non tra gli onesti. Infatti, è proprio dell’uomo onesto, che è lecito chiamare saggio, osservare che non vi sia niente di finto o simulato; infatti, è proprio degli animi nobili persino odiare apertamente piuttosto che celare il proprio pensiero dietro un falso aspetto. Inoltre non solo respinge le accuse fattegli da qualcuno, ma non è neppure sospettoso, pensando sempre che l’amico abbia commesso qualche errore. Conviene aggiungere, infine, la dolcezza di parola e di modi, condimento per nulla trascurabile dell’amicizia. […] Degno di amicizia è chi ha dentro di sé la ragione di essere amato. Specie rara! […] Di tutti i beni della vita umana, l’amicizia è l’unico sulla cui utilità gli uomini siano unanimemente d’accordo.[…] Tutti sanno che la vita non è vita senza amicizia, se almeno in parte si vuole vivere da uomini liberi. L’amicizia, infatti, si insinua, non so come, nella vita di tutti e non permette a nessuna esistenza di trascorrere senza di lei. Anzi, se un uomo fosse di indole tanto aspra e selvaggia da rifuggire da ogni contatto umano e da detestarlo, non potrebbe tuttavia fare a meno di cercare qualcuno cui vomitare addosso il veleno della sua acredine. Allora è vero quanto ripeteva, se non erro, Archita di Taranto: “Se un uomo salisse in cielo e contemplasse la natura dell’universo e la bellezza degli astri, la meraviglia di tale visione non gli darebbe la gioia più intensa, come dovrebbe, ma quasi un dispiacere, perché non avrebbe nessuno cui comunicarla”. Così la natura non ama affatto l’isolamento e cerca sempre di appoggiarsi, per così dire, a un sostegno, che è tanto più dolce quanto più caro è l’amico.[…] In realtà, i rapporti di amicizia sono vari e complessi e si presentano molti motivi di sospetto e di attrito; saperli ora evitare, ora attenuare, ora sopportare è indice di saggezza. Un motivo di risentimento in particolare non va inasprito, per poter conservare nell’amicizia vantaggi e lealtà: bisogna avvertire e rimproverare spesso gli amici e, con spirito amichevole, bisogna accettare da loro gli stessi rimproveri se sono ispirati dall’affetto. Se, dunque, è indice di vera amicizia ammonire ed essere ammoniti – e ammonire con sincerità, ma senza durezza, e accettare i rimproveri con pazienza, ma senza rancore -, allora dobbiamo ammettere che la peste più esiziale dell’amicizia è l’adulazione, la lusinga e il servilismo. Dagli tutti i nomi che vuoi: sarà sempre un vizio da condannare, un vizio di chi è falso e bugiardo, di chi è sempre pronto a dire qualsiasi cosa per compiacere, ma la verità mai”.



L’amicizia è innanzitutto una comunicazione (http://doc.studenti.it/appunti/psicologia/9/comunicazione.html) tra due persone che condividono passioni, situazioni comuni, che nel bene e nel male si sopportano a vicenda durante il lungo percorso della vita. Uso il termine “sopportarsi” perché tra persone vi sono sempre delle divergenze che possono far riflettere e crescere allo stesso tempo, ma anche provocare l’allontanamento, a volte anche definitivo, nei casi più gravi nei quali svanisce la fiducia, suscitando l’incomprensione degli uni verso gli altri. Purtroppo ci si rende conto dell’importanza degli amici solamente quando questi c’ignorano, quando si percepisce il loro allontanamento dalla nostra vita. In altre parole ci brucia la mancanza di un’amicizia quando ci si rende conto di averla perduta per sempre. A poco servono le scuse. Possono ricreare il dialogo, permettono forse di riallacciare i rapporti fisici, ma non riportano indietro la fiducia perduta. Come le ferite causate dalla lama di un pugnale, se pur rimarginate con il tempo, restano visibili per tutta la vita. L’amicizia è un bene prezioso che va alimentato giorno per giorno, è in continua evoluzione tanto che grazie a esso non ci rendiamo nemmeno conto dello scorrere del tempo. Plauto diceva: “Dove sono gli amici, là sono le ricchezze”, e per essere tale l’amicizia deve essere vissuta, costruita e non contemplata al pari di un monumento o di una generica meraviglia naturale. Non si può essere spettatori di un’amicizia, bisogna indossare i panni dell’attore e onorare la propria parte sulla scena, fino alla conclusione dell’atto, fino a quando non cala il sipario. Bisogna farlo sempre in prima persona, mettendosi in gioco, forse a volte sbagliando o rischiando di essere traditi. Si può rimanere estasiati alla visione di un’aurora boreale, ma non di certo indifferenti di fronte all’immagine di due cuccioli di cane e gatto che reciprocamente si coccolano, mentre giocano inconsapevoli della loro diversità e del loro futuro “avverso/avversario”. A volte cerchiamo le persone perché sappiamo che con loro la giornata sembra essere più serena, ogni evento più lieto. Non ci rendiamo conto forse che essi sono dei potenziali amici. Così, d’improvviso lo diventano e basta, senza nessun tornaconto, per noi e per loro. Secondo le leggi (http://enciclopedia.studenti.it/legge.html) dell’Economia il “donare” è cosa buona solo se gli corrisponde sempre un “ricevere”. Nella vera amicizia disinteressata vi è invece un continuo donare e il modo in cui si fa vale di più di ciò che si dà.

E poi arriva l’amore, in tutte le sue forme. Amicizia e amore, un connubio indissolubile? E quell’affetto che in qualche modo le unisce? Sono sensazioni cardine nella nostra vita di tutti i giorni, portatrici di emozioni uniche e indimenticabili, motivi validi per affrontare le mille difficoltà che quotidianamente si pongono sul nostro cammino. Nel corso della nostra esistenza viviamo diverse volte queste situazioni, ci troviamo così spesso ad avere a che fare con queste emozioni che bisogna anche saper gestire, comprendere, alle volte accettare e accettarsi nonostante tutto e tutti. Alle volte, questi sentimenti si confondono tra di loro e diventa difficile distinguerli per far chiarezza su ciò che proviamo. Altre volte, questo lavoro è inutile e non ce ne rendiamo nemmeno conto: la fame di chiarezza alimenta solo ulteriormente il nostro stato di confusione interiore. Quando si vuole bene a un amico, senza distinzioni di sesso, quando si tiene a lui e si è parte integrante della sua stessa esistenza, diventa quasi superfluo distinguere le due cose. Amore come culmine estremo dell’amicizia. Nel profondo di noi stessi l’amico che soffre o che gioisce, che vive i momenti belli o brutti della sua vita ci coinvolge totalmente. Con lui condividiamo le medesime esperienze ed emozioni. Allo stesso modo l’amico sente le nostre. Si arriva a vivere in simbiosi, tenendo al bene dell’amico così come si tiene a se stessi. E poiché volenti o nolenti ci si ama, è corretto affermare che si ama anche lui o lei allo stesso modo. Vale quindi davvero la pena di far distinzione tra amicizia e amore? Certo, quando nel rapporto subentrano il sesso, la famiglia, la convivenza. Resta vero il fatto che, in certe situazioni, è semplicemente superfluo porsi il problema.




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